Come si definisce dopo tanti anni di carriera?
“Un direttore operaio. Ho affrontato questo mestiere in tutte le sue pieghe, scoprendo che poi la parte fondamentale non è tanto apparire, fare o scrivere, bensì parlare di giornali. Io ho fatto giornali con le mie mani per tutta la vita”.

Partiamo dal Bologna del passato: ci racconta il suo rapporto con i protagonisti dello Scudetto del 1964?
“L'aspetto bello di questo mestiere è raccontare vicende di chi ho conosciuto, senza romanzare nulla, non mi piace. Conoscere Renato Dall’Ara è stata davvero una grande fortuna. Il mio capo di Stadio Aldo Bardelli, mi disse che il presidente mi avrebbe ricevuto volentieri alla domenica per seguire insieme alla radio Milan-Bologna. Un’esperienza straordinaria, con i commenti di Dall’Ara davvero spassosi, era un uomo di una grandissima umanità. Con Bulgarelli ho avuto un rapporto fraterno. Con Haller ho scritto il mio primo libro dedicato a lui, “Haller com’è, un napoletano a Bologna”. Definizione che poi si è portato dietro per tutta la vita. Del Bologna ho avuto una conoscenza profonda perché ci lavoravo e anche perché mi affascinava Fulvio Bernardini, che per me è stato un maestro”.

Lei quell'anno si è occupato in prima linea del presunto complotto contro il Bologna.
“Non era un presunto complotto. Sembrava impossibile provare l’innocenza del Bologna, eppure io ho proseguito imperterrito finché non si sono aperte delle situazioni. Ovviamente non con un trucco magico, bensì con l’aiuto del maggiore dei carabinieri Carpinacci, incaricato dalla Procura di seguire la vicenda. Si scoprì che qualcuno era entrato in un frigorifero di Coverciano non sigillato, aveva preso le provette dei giocatori del Bologna che avevano fatto l’antidoping e ci aveva messo dell’eccitante che fu poi trovato nella prima analisi per accusare i bolognesi. Nella controprova si scoprì che la quantità di doping in ciascuna provetta poteva ammazzare un cavallo. Ma c'è di più".

Prego, prosegua.
"Con il tempo, indicai pure chi poteva essere stato, finché il dottor Dalmastri, storico medico del Bologna per tanti anni, un giorno raccontò di aver parlato con Giuseppe Viani, detto Gipo. Allora era alla guida del Milan e aveva provveduto a trovare qualcuno che mettesse il doping nelle provette dei rossoblù. Un giorno scrissi al presidente del Bologna, allora Goldoni, e gli dissi che gli assassini tornano sempre sul luogo del delitto e lui rise perché aveva proprio assunto Viani. Non potevo dire di più perché onestamente non avevo prove. Rimase per aria quella frase, finché attraverso il dottor Dalmastri non si ha avuto la confessione di Gipo, che tra l’altro era un personaggio di grande importanza. Lo chiamavano lo sceriffo e non gliene fregò niente di far sapere che era stato lui. Ci aveva provato, ma non era andata bene”. 

Cosa pensa invece dell’operato dell’attuale Bologna di Saputo?
“Quando sento il compiacimento della parte tecnica o aziendale di arrivare al decimo posto come un traguardo importante, questo vuol dire chiudere la pratica. Io rimango tifoso del Bologna nel cuore, ma del resto non sono particolarmente orgoglioso. Preferisco le stagioni in cui abbiamo lottato fino alla fine per non retrocedere, aver diretto Stadio quando eravamo in C, averlo visto tornare in B e successivamente in A, piuttosto che fare questi campionati dove navighi nella mediocrità, senza emozioni, come stiamo facendo adesso. C’è talmente tanto bisogno di emozioni, che quando arriva Arnautovic lo scambiano per Nielsen…vedi un po’ te come siamo messi”.

Quale giocatore rivelazione la sta colpendo di più?
“Dominguez, spero che guarisca e di poterlo apprezzare vedendolo giocare una partita intera, in condizioni fisiche adeguate. La gara giocata da infortunato a Verona? Ho visto Beckenbauer con un braccio al collo giocare la semifinale del Campionato Mondiale in Messico. Mi piacciono i lottatori. Un lettore di una certa età, che mi sembra sia stato un caro amico di Bulgarelli, mi ha scritto una lettera per segnalarmi che c'è giocatore che somiglia a Bulgarelli e si riferiva proprio a Dominguez”.

Cosa è cambiato nel giornalismo moderno?
“La tecnologia ha favorito la stampa, l’avviamento e l’edicola, ma non il giornale nel suo contenuto. C’è meno attenzione operaia al giornale, che oggi viene chiamato prodotto, che spesso e volentieri prende quello che arriva via web e lo mette direttamente in pagina con tutti gli svarioni, gli errori di battuta e le stupidaggini che possono capitare a chiunque. Faccio un esempio, è come passare dalla botteghina per arrivare ad Amazon. Il giornale ha fatto tutta questa strada, con un solo problema, prima vendeva un milione di copie e ora diecimila”.

A cosa è dovuto il calo della qualità nel prodotto giornalistico?
“Oggi è tutto una corsa all’anticipazione. Ai miei tempi c’era lo scoop, ma non era certificato quindi rischiavi di fare brutta figura se non avevi le giuste prove. Attualmente c’è la fretta di comunicare, dare la notizia prima sul web, presunta o vera che sia e poi sul giornale cartaceo. Ammesso che siano notizie certificate, data l’invasione spaventosa delle fake news, così il giornale di carta rischia di non essere più utile. Per questa ragione molte edicole hanno chiuso, mentre in quelle ancora aperte ci trovi le merendine e i dvd porno”.

Secondo lei cosa significa fare giornalismo?
“Il problema è che le scuole di giornalismo invece non lo insegnano per niente. In particolare, gli inventori del corso universitario di comunicazione hanno dato un fiero colpo alla qualità giornalistica. Quando si è creduto che una cultura allargata, una laurea, potesse diventare una patente per fare il giornalista hanno sbagliato completamente. Il giornalismo è un mestiere di ben altra origine e con tutt’altro scopo”.

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