Tra una metafora e l’altra che collega pallone e cinema, l’attore bolognese Orfeo Orlando ha detto la sua sulla qualificazione in Champions del Bologna. Orlando ha toccato anche il tema dell’allenatore e del campionato, spiegando come vede la stagione che verrà. Ecco la sua intervista a Il Resto del Carlino.
L’ultima e l’unica volta in cui abbiamo partecipato a quella Coppa avevo solo sei anni. Mia madre abitava in via Asiago, non lontano dallo stadio: ero un bambino che cominciò a respirare presto l’aria dei colori rossoblù.
Ho ancora negli occhi le immagini di mio nonno, che era friulano di Portogruaro e che non era un vero e proprio appassionato di calcio: per festeggiare lo scudetto, però, in quei giorni scese in piazza pure lui. Si era appassionato alla colonia friulana di quella squadra: Pascutti, Furlanis, Tumburus. Che squadrone.
Parto da una premessa. Io sono innamorato pazzo di Bologna, quando per motivi di lavoro mi hanno proposto di trasferirmi a Roma ho sempre declinato l’invito, perché preferisco lavorare a Roma e la sera prendere un treno per tornare a casa mia.
Ai bolognesi, per indole, non va mai bene niente. E qui non si tratta di essere saputiani o maigoduti: è proprio nell’indole di noi bolognesi l’idea che lo spumante, come diceva l’avvocato Porelli, in questa città debba sempre avere un retrogusto di tappo. Non c’è cattiveria, ma lo scetticismo preventivo qui è la regola: dopo tre partite Italiano diventa già inadeguato, il mercato non è stato all’altezza e la società che non sa fare calcio.
Non sono preoccupato, ma non perché sia un eterno ottimista: cerco solo di analizzare le cose. La società e Saputo dopo un lungo percorso ci hanno portati in Champions. Il mercato lo giudicherò quando avrò visto in campo tutti i nuovi acquisti, cosa che per molti di loro non è successa. Dopodiché parliamo di Italiano.
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Ovunque è andato ha fatto bene. Anche a Firenze, dove non sono teneri con la squadra, ha ereditato una Fiorentina derelitta e l’ha portata tre volte in finale. Dice: le ha perse tutte e tre. Ma giocare una finale è come partecipare al Festival del Cinema di Venezia o quello di Cannes: il vincitore è uno, ma non è che quelli che arrivano dietro sono scarsi.
Gli oscar della scorsa stagione li assegnerei indistintamente a tutti i componenti della squadra. Perché lo ‘stranino’ ha dato al gruppo un’impronta importante ma aveva materiale tecnico di prim’ordine. Funziona così anche nel cinema: puoi essere un bravissimo regista ma se gli attori non hanno la stoffa è difficile che esca un bel film. Altro parallelismo col calcio che mi viene in mente: fare un bel film è frutto di un gioco di squadra. Il protagonista conta, ma contano anche le cosiddette comparse. Chi fa un ruolo minore è una rotellina della macchina: ma se quella rotellina s’inceppa rischia di bloccarsi tutta la macchina.
Mi rivedo in Aebischer. Lui è più che una semplice comparsa, però in campo si vede poco. Eppure le cose che fa contano e hanno contato tanto per arrivare in Champions.
Il film più bello della mia vita da tifoso. Se dovessi trovare un titolo appropriato azzarderei ‘Nuovo cinema paradiso’. Anche perché evoca ricordi vecchi di sessant’anni, quando il Bologna giocava un calcio davvero paradisiaco.
Ho avuto la fortuna di partecipare a un film di successo, diretto da Bellocchio e Placido. Adesso ho appena finito di girare un film indipendente del regista Rodolfo Bisatti, ‘On Life: l’Università dei Bambini’, dove dei ragazzini, diciamo così, problematici insegnano agli adulti ad utilizzare le nuove tecnologie.
Sarei felicissimo se si piazzasse dal sesto al nono posto. E firmerei subito per un posto in Conference League, perché mi è chiaro che la qualificazioni in Champions è stata una magnifica eccezione.
Io sogno Anfield. Ma so che prima bisogna far punti a Como.
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