Il papà è stato uno dei giocatori più rappresentativi dell’intero panorama nerazzurro. Gianfelice Facchetti oggi è un attore e uno scrittore, il mondo del calcio lo vede da spettatore. La stagione magica dell’Inter e la sfida contro il Bologna, nell’intervista rilasciata alla Repubblica Gianfelice Facchetti dimostra di avere grande ammirazione per Thiago Motta e i suoi ragazzi.
La partita tra i due allenatori del momento, quelli che nell’ultimo anno e mezzo hanno fatto coincidere la loro crescita con quella della squadra. Oggi vantano il miglior calcio della serie A. Quanto al Bologna, non c’è gruppo più difficile da affrontare in questo momento.
No, perché ricordo bene l’Inter in cui giocava. Un gruppo pieno di figure carismatiche. Quando vinci a quei livelli, del resto, non ti puoi aggrappare a un solo leader. Solo nel centrocampo del Triplete ce n’erano almeno due: l’altro era Cambiasso.
Nel modo in cui guidava il centrocampo sì. Ma il carisma non passa solo per gesti eclatanti. Per me significa saper fare la propria parte. Quando arrivò a Milano c’era molto scetticismo attorno a Thiago, che veniva da un infortunio.
Lo seguo da quando guidava lo Spezia. Per ragioni teatrali avevo fatto un lavoro sulla squadra dei Vigili del Fuoco di La Spezia che vinse il titolo del 1943-44, mai entrato negli annali perché era un campionato di guerra. Le vittorie di Thiago contro le grandi mi impressionarono. Non erano exploit casuali, ma conseguenza di un certo modo di fare calcio.
Sì. Ci sono allenatori spinti palesemente dai media. Lui non è tra questi: poche parole, non cerca mai il centro dell’attenzione. E in un calcio che va nella direzione contraria, mi piace anche questo aspetto. Raro. E posso dirlo, visto che di calciatori ne ho conosciuti parecchi.
Letteralmente. Sin da piccolo ho avuto modo di incontrare figure storiche, come il grande Benito Lorenzi, attaccante dell’Inter tra gli anni ‘40 e ‘50, oppure Andrea Bonomi, bandiera del Milan, famoso per esser stato salvato da piccolo mentre stava affogando nell’Adda. Famoso era anche chi lo salvò: il grande Valentino Mazzola.
Non penso che si debba per forza idealizzare il passato, ma nel presente si tende sempre più a rimuovere il passato, a non studiarlo, a dimenticarlo. E quindi è importante conoscerlo, chiedendosi quale sia il senso del calcio, in un mondo che ha ridotto i tifosi al ruolo di clienti.
Non da un momento all’altro. Quando giocava mio padre, molti tifosi sono entrati nella vita della nostra famiglia, diventando amici. Oggi non sarebbe più possibile. Le cene coi club, gli incontri informali, le chiacchiere in ritiro: tutto finito. Ma la fortuna dei calciatori deriva dai tifosi, è sempre bene ricordarselo.
Lo feci nel 2018, dopo gli insulti toccati a Koulibaly. Portammo decine di ragazzi al memoriale della Shoah e cucimmo un racconto contro la discriminazione che passò anche da Weisz, un innovatore straordinario, con una visione del calcio che sarebbe moderna persino oggi.
Che avrà anche un seguito, spero. E nel sequel non potrà mancare Bulgarelli.
Dovevo ancora nascere, ma nei suoi racconti prevaleva la vittoria in Coppa dei Campioni, avvenuta pochi giorni prima.
Sarà una sfida bellissima, che seguirò dalla tv, fra due club con proprietari stranieri che hanno idee e capacità imprenditoriali. Di Saputo apprezzo anche l’understatement. Il suo Bologna andrà lontano.
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