Marko Arnautovic, attaccante titolare del Bologna, ha parlato della sua carriera in un’intervista alla rivista settimanale SportWeek. Di seguito le sue parole.
Su chi è oggi Arnautovic: “Un padre. Un marito. Un uomo più maturo, sereno, tranquillo. Completamente diverso da com’era dieci o dodici anni fa. Ho due figlie e quindi grosse responsabilità. Il vecchio me? Ogni tanto viene fuori, soprattutto in campo. Lì rimango più aggressivo. Ma ripeto: sono diverso. Prima, la sera volevo sempre uscire, facevo cazzate, combinavo casini… Adesso sono sempre a casa, non mi vedrai mai fuori. Ora capisco che il calcio è il mio lavoro, mi pagano bene per farlo, quindi ho il dovere di ascoltare il mio allenatore, il direttore sportivo, il presidente. Anche i compagni: se sbaglio qualcosa e non vedo l’errore, ma loro sì e me lo fanno notare, devo accettarlo e non attaccarli come facevo: ‘Oh, ma chi sei, che cazzo vuoi?’. Una volta c’era solo Marko Arnautovic”.
Sui rimpianti e il cambio di mentalità: “Rimpiango la disciplina che non ho avuto. È stato David Moyes al WestHam a cambiarmi la vita. Mi ha spostato di ruolo, da esterno a centravanti, e mi ha detto: ‘Ti metto davanti, ma devi difendere insieme alla squadra’. ‘Io non difendo’. ‘Se non difendi, non giochi’. Mi sono sacrificato a difendere per due o tre mesi, dopo lui è tornato da me e ha detto: ‘Adesso puoi restare fermo lì davanti. Gli altri lavoreranno per te. In cambio, mi devi fare gol o servire l’assist’. Sì, Moyes mi ha cambiato nella testa”.
Sul paragone con Ibra: “È stato un paragone impossibile. Mi ha fatto felice all’inizio, ma, ragazzi, Ibra è Ibra. Io non sono al suo livello. Mi tolgo il cappello davanti alla sua carriera. Per me è un amico, un fratello, perché anche la sua vita all’inizio non è stata facile”.
Sul suo ruolo al Bologna: “Scherzo molto. Ma io mi vedo come gli altri. I leader sono altri: De Silvestri, Soriano, Medel… Lascio parlare loro. Nella mia carriera non ho mai parlato nello spogliatoio. Io parlo in campo. Con i piedi”.
Sul vivere a Bologna: “Questo è il posto giusto dove crescere le mie figlie. La città è organizzata, la gente rispettosa. Poi il clima: fino a due mesi fa giravo a mezze maniche. E il cibo: da nessuna parte si mangia come in Italia. Università? La mia è stata il pallone. Non ho pensato ad altro che al calcio”.
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